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Sebastiano Mauri m’invita a entrare nel cortile e a guardare in alto. Spunta dalla ringhiera lassù, sembra un angelo che mi scruta curioso di sapere chi sono. Il suo studio è alla fine di un ballatoio di un vecchio palazzo ai bordi del centro. Iniziamo a parlare e passiamo dalle sue ossessioni alle mie, interrotte soltanto dall’euforia dei suoi due cani, Bartok e Petra. Azzurro cielo dentro agli occhi, barba breve sul volto, spontaneità in ogni gesto.
La moka è sul fornello, Ella Fitzgerald in sottofondo. Il lavoro di Mauri è poliedrico, accattivante, profondo. È un viaggio che comincia su binari netti per poi evolversi liberamente su piani diversi, «perché fare sempre la stessa cosa mi annoia». L’interesse nei confronti dell’altro è perennemente compromessa dai fattori esogeni (The other è il titolo della mostra che si terrà a gennaio presso la nuova sede della Galleria Michela Rizzo alla Giudecca di Venezia), la venerazione da parte dell’umanità verso i vari Dei e il paradosso delle religioni sono i fili conduttori che insieme producono la trama della sua arte. La produzione artistica di Sebastiano Mauri coinvolge sacro e profano, esoterico e santa ironia, preziosità e materiali poveri. Il remix di questi elementi diventa una parafrasi intensa della cultura odierna. Divinità che incontrano esseri mostruosi sotto campane di vetro, altarini opulenti dentro scatole di acciaio inossidabile, occhi, naso, bocca sopra tele giganti, The God Machine che distribuisce divinità per tutti i gusti anziché snacks, in mostra al Macro di Roma (Art in the lobby, fino al 15 gennaio). Sebastiano cresce a Milano in una famiglia visionaria, zero borghese e molto hippy, si laurea alla New York University in cinema, inizia a dipingere per caso, i suoi quadri piacciono, la sua prima mostra a Buenos Aires è un successo. Il romanzo, Goditi il problema (Rizzoli) è un tassello nuovo nel suo mosaico sincretico. Un diario più o meno intimo, più o meno fedele, più o meno fantastico che ha scritto immaginando che tutte le persone a lui care siano morte, come suggeriva Brenda Ueland. Scrivere seguendo questa prospettiva è stato molto faticoso ma catartico, lo ha reso un uomo più libero. «In realtà è un processo lungo, forse si è veramente liberi solamente il giorno in cui poi si muore». Quando Sebastiano mi racconta di Hildegard von Bingen (sue alcune delle musiche che fanno da sottofondo ai video della mostra L’Altro) nei suoi occhi color cielo è già primavera, oltre questo inverno. Profondità vs superficie, alla ricerca della libertà. Cos’è la libertà? Aprendo il lucchetto della bici in cortile guardo in alto, Sebastiano è di nuovo lassù e mi sorride. Davvero, promesse di primavera dentro a un cielo opaco.

sebastiano mauri by laura taccari, l'officiel italia 2013