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Le stelle non giudicheranno il nostro amore senza nome», recita una delle canzoni originali contenute nella colonna sonora di Favola, di Sebastiano Mauri, distribuito da Nexo Digital. Un verso che, da solo, vale più di mille sinossi. Perché effettivamente è difficile dire non di cosa, ma di chi parli il film. Il tema è chiaro: accettarsi e accettare; sapersi tra noi diversi eppure uguali in dignità e diritti, primo fra tutti quello alla felicità. Chi è però quel personaggio – irrestistibile e sopra le righe – interpretato da Filippo Timi? Qual è il suo nome, la sua definizione?

Sì, Favola è un film dichiaratamente e spudoratamente LGBT(+), ma rispetto alle altre opere del “genere” dimostra anche di essere fortemente diverso. Il lavoro di Mauri, infatti, colma un vuoto: quello dell’assenza di fattori disorientanti. Mi spiego: nei più noti e apprezzati film sul tema, il pubblico è sempre perfettamente cosciente di ciò che sta guardando. Sa che gli si sta proponendo la storia di una coppia gay o lesbica, di un ragazzo che si scopre omosessuale o di una persona transgender che – senza alcuna ambiguità – decide di riallinearsi al genere che è sempre stato, intimamente, il proprio. Con Favola, invece, questo non avviene. Più ci si avvicina alla fine e più appare possibile capire, definire, riportare la storia alle categorie già note, ma mai la possibilità di classificare i personaggi e i loro vissuti sembra essere davvero importante. Lo spettatore, piuttosto, impara ad accettare di non sapere. Impara, in altri termini, a tollerare la propria ignoranza.

Insieme a chi guarda, anche chi vive il racconto di Favola viene spinto a uscire dalle righe, a scrivere in libertà su fogli totalmente bianchi. I personaggi abitano, per la quasi interezza del film, un mondo impagliato, in cui l’importante non è essere vivi, ma sembrarlo. In cui, inoltre, si può sognare di essere ribelli solo sulle pagine dei libri, letti come (appunto) irrealizzabili favole.

La Mrs. Fairytale di Timi esercita continuamente tagli e censure al reale, costruisce attorno a sé un castello che riesce a non far crollare solo grazie alla sua cieca voglia di sopportare, come fossero innocue, quelle convenzioni tipicamente borghesi che ne limitano la vera identità. Sono due allora le dimensioni tra cui Fairytale si destreggia e su cui deve interrogarsi. Da una parte c’è la sua fantasia, a cui però può credere solo finché questa non diventa deleteria; finché, dunque, non le impedisce di diventare protagonista della sua vita. Dall’altra, una condizione priva di nome, fuori dai binari (e dal binarismo) di cui lei è portatrice ma in cui lei stessa, per prima, deve imparare ad avere fede, a credere possibile.

Il regista Mauri non si tira indietro dal disorientare ulteriormente lo spettatore: gli ingressi in campo dei personaggi, l’uso sapiente e soprattutto piacevole (non è mai scontato che risulti tale) dello scavalcamento di campo e dei jump-cut trasporta l’osservatore in una dimensione parallela, a tratti aliena, dominata da oblio, indeterminatezza e sorpresa. Anche l’occhio impara presto ad accettare di non sapere come sia possibile ritrovare un personaggio lì e non là, cosa sia successo tra uno stacco di montaggio e l’altro, se quella che sta guardando sia o meno l’America, se sia o meno reale.

Il tutto prende vita tra le sognanti scenografie di Dimitri Capuani, così simili a quelle pubblicità vintage risalenti all’America del boom economico, in cui le scenette di vita casalinga e familiare diventavano quadretti da cataloghi e vetrine, custodi di una perfezione apparente inscalfibile, di una favola. In cui, inoltre, non era percepita come poi così malvagia l’esasperazione di valori e ruoli patriarcali. Queste immagini si muovono sulle note delle musiche composte da Pivio & Aldo De Scalzi e le canzoni originali di Massimo Martellotta e Gala. Artisti eccellenti, che sanno entrare in perfetta sintonia con la messa in scena e la storia e far così godere il pubblico dello spettacolo che è Favola con un coinvolgimento che non conosce eccezioni.

Di recente, a seguito di un caso di stupro culminato con una sentenza che con la giustizia ha poco a che fare, si è diffuso lo slogan “Hermana, yo te creo” (Sorella, io ti credo). Mi permetto di riappropriarmene per chiedervi: se questa sorella vi dicesse che una notte, guardandosi allo specchio, si è resa conto di essere in verità un fratello, gli credereste? Nel caso contrario, la trattereste come una vostra sorella? Se, ancora, vi dicesse che non è né vostro fratello né vostra sorella, ci credereste? Quanta fede pensate di poter riporre in ciò che sfugge alla banale superficialità della vostra percezione? Quanta fiducia avete nella capacità degli altri di autodeterminare se stessi e i termini della propria felicità? Fin dove riuscite a sopportare, semplicemente, di non poter dare un nome a ciò che vedete?

favola: cosa sei disposto a credere? by lucia liberti